Caffè Michelangiolo

Il Caffè Michelangioloaprì intorno al 1848/50 in alcuni locali a pianterreno di Palazzo Morrocchi in via Larga (oggi via Cavour 21). Fu un centro di scambio di idee e di discussioni politiche spesso animate dal ponce (caffè con un liquore simile al rhum) molto apprezzato dai suoi frequentatori, che erano intellettuali, uomini politici, letterati (Domenico Guerrazzi, Carlo Lorenzini) e artisti (Stefano Ussi) accomunati dagli stessi ideali politici e patriottici.

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Situato in un luogo strategicamente importante, a poca distanza dall’Accademia di Belle Arti, regno della pittura ufficiale, era dotato di due ambienti principali: il primo era dedicato ai clienti tradizionali, mentre il secondo era una stanza quadrata, simile ad un salotto borghese con tavolini dal ripiano di marmo e sgabelli di legno, in cui il fumo era più denso e soffocante e l’illuminazione consisteva in due becchi a gas appesi al soffitto. In questo locale si incontrava il gruppo degli artisti e degli intellettuali che, arrivavano qui da ogni parte d’Italia: alcuni attratti dal glorioso passato della città, altri per sfuggire al rigore poliziesco dei loro governi. Infatti, mentre dopo il 1850 negli altri Stati si scatenavano le reazioni ai moti risorgimentali, a Firenze, l’ apertura culturale di un governo illuminato favoriva una maggiore tolleranza politica. Dopo il 1855 ai cospiratori romantici si sostituirono gli artisti italiani, come i pittori  toscani Serafino De Tivoli e Domenico Morelli, e il pugliese Saverio Altamura, che all’ ’Esposizione Universale di Parigi avevano scoperto la pittura di Corot e dei pittori di Barbizon ed anche artisti stranieri, tra cui Edgar Degas che nel 1858 soggiornò a Firenze frequentando Altamura, Cristiano Banti e Giovanni Fattori. In questo ambiente molto vivace si iniziò a parlare di un nuovo modo di osservare e di dipingere,  abbandonando le raffigurazioni di eventi storici, ponendo attenzione al “vero” e rappresentando soggetti di vita quotidiana e paesaggi. I contatti tra la ricerca della “Macchia” toscana e la successiva “Impressione” parigina produrranno delle analogie, sia nel rifiuto della rigidità delle Accademie sia nella tecnica rivoluzionaria dei giovani pittori, che, vittime di critiche e derisioni, furono etichettati spregiativamente all’epoca gli uni Macchiaioli e gli altri Impressionisti. La loro ricerca, però, permise a Firenze di divenire nella cultura figurativa italiana il centro più importante e vitale con un nuovo stile: la pittura a “Macchia”. Abbracciarono questa nuova visione artistica il veneto Vincenzo Cabianca, i toscani Cristiano Banti, Telemaco Signorini, più di altri influenzato dal Realismo francese, e Giovanni Fattori, che, in nome di una pittura antiaccademica che riproducesse “l’impressione del vero” , già nel 1852 aveva abbandonato l’Accademia. Essi dipingevano all’ aperto in modo veloce per catturare la luce del momento e semplificarono le forme fino alle loro strutture essenziali;  eliminarono il disegno che precedeva l’elemento cromatico e di fatto privilegiarono la tecnica che allineava “macchie” di colore e di chiaroscuro. Tutta l’attenzione è rivolta allo studio della luce, vista in modo netto rispetto all’ombra, separate e vicine, ma opposte: è la luce stessa, strumento indispensabile alla visione, che, colpendo gli oggetti, viene inviata all’ occhio e riconosciuta come colore. Le zone ( macchie ) di colore chiaro e scuro ( luce-ombra ) ricostruiscono e disegnano quindi la forma dell’oggetto. Negli anni successivi condivisero il movimento che stava nascendo nelle sale del Caffè altri artisti, tra cui il pesarese  Vito D’Ancona, Giovanni Boldini ed il veneziano Federico Zandomeneghi, gli esponenti della scuola di Piagentina Silvestro Lega, Telemaco Signorini, il pisano Odoardo Borrani,  Raffaello Sernesi ed il napoletano Giuseppe Abbati,  ed inoltre il critico fiorentino Diego Martelli, che ne fu l’illustre teorico.

(a cura di Carmela Panarello)